mercoledì 27 gennaio 2010

Quella notte che presi il treno...



Non riuscivo quasi a prender sonno quella notte: la mattina sarei andato a scuola, il mio primo giorno di scuola. La mamma mi aveva preparato un vestito nuovo. Cioè non era proprio nuovo, perché l’avevano già indossato i miei fratelli prima di me. Ma era pulito e aveva una coccarda bianca rossa e verde proprio sul petto.
Mi piaceva quella coccarda e la fissai finchè riuscii a tenere gli occhi aperti. Credo anche di averla sognata. Svegliati tesoro, svegliati amore mio, presto svegliati... La voce di mia mamma aveva qualcosa di diverso dalle altre mattine, quando mi accompagnava dolcemente dalla notte al giorno, dal sogno alla realtà. Quella volta la voce non era dolce. Io aprii gli occhi ed ero contentissimo perché avrei potuto mettermi il vestito nuovo con la coccarda tricolore e sarei andato a scuola e avrei giocato con gli altri bambini e poi sarei tornato a casa e avrei raccontato di quanto mi fossi divertito e…  non ebbi il tempo di allungare la mano per prendere il vestito che mi ritrovai in braccio a mia sorella, in cortile: e con noi c’erano anche Antonio e i suoi genitori e gli zii, poi c’era la signora Adele con il marito e il vecchio signor Fausto, quello che borbottava tutte le volte che io e i miei fratelli giocavamo a palla nel cortile. E poi c’erano anche altre persone che non avevo mai visto. Molte di loro piangevano, anche mia sorella piangeva. Io non sapevo perché, ma non mi venne di chiederglielo. Però vidi che era ancora buio. C’erano altre persone che gridavano. Svelti! Svelti, muovetevi! Tutti in cortile, tutti fuori!. Erano vestiti di scuro e avevano in mano delle specie di bastoni. Ogni tanto qualcuno prendeva certi colpi… soprattutto i signori più anziani, perché camminavano lentamente e alcuni venivano spinti e cadevano. E quando cadevano, invece di aiutarli a rialzarsi, ricevevano altri colpi con i bastoni. Quando succedeva, anche a me veniva da piangere. Poi ho ripensato alla mia coccarda, volevo tornare a prenderla; provai a scendere dalla presa di mia sorella, ma lei mi teneva tanto stretto e continuava a piangere. Poi vidi uscire la mamma con i miei fratelli. Anche lei piangeva. Piangeva e teneva per mano mio fratello più piccolo, Giacomo. Appena uscita in cortile iniziò a urlare il nome di mio papà. Pietro! Pietro no, Pietro, perché? Fu solo allora che vidi mio papà: stava seduto sopra a un camion, ma non dove si guida, di dietro, insieme ad altri uomini. Anche tra di loro qualcuno piangeva, altri gridavano, chi il nome della moglie o dei figli, chi della madre e del padre, chi urlava e basta. Poi il camion partì e sparì nel buio. Un uomo che stava proprio vicino al mio papà, cadde dal camion e iniziò a correre: subito tre o quattro di quelli con il bastone gli corsero dietro e dopo poco lo raggiunsero e lo colpirono con i bastoni e con i calci, dappertutto. Poi a un certo punto si sentì uno scoppio fortissimo. L’uomo che scappava non si mosse più e tutte le donne nel cortile presero a piangere ancor più di prima…mia sorella mi strinse così forte che mi fece quasi male…




… tutti in fila salimmo anche noi su un camion con quegli uomini che continuavano a urlare e gridare anche se noi facevamo quello che volevano loro. Ma continuavano a gridare. Riuscii a vedere la mamma e i miei fratelli salire su un altro camion, ma volevo che fossero lì con noi e cominciai a chiamarla mamma, mamma, vieni qui, voglio stare con la mia mamma… a me pareva di urlare fortissimo, ma la mia voce si perdeva in quelle di tutti gli altri. Il camion partì. Era buio fuori e nelle strade non riuscii a vedere nessuno. Arrivammo alla stazione dei treni. Io ci ero stato una volta sola: mio papà mi ci aveva portato quando zia Santina era venuta a trovarci da Torino. I treni mi piacevano un sacco e mi sarebbe piaciuto un giorno poterne guidare uno. Ci avrei fatto salire la mia mamma e il mio papà, i miei fratelli, mia sorella e Antonio. Anche zia Santina poteva salire. E anche il vecchio Fausto, perché in fondo era un po’ scorbutico, però non era cattivo. Sì, un giorno avrei guidato un treno e sarei andato fino al mare. Ancora una volta ci fecero mettere in fila, faceva freddo ed io ero in pigiama. Rimanemmo lì in piedi per tanto tempo, tutti in fila sotto a un cartello: binario 21. Poco più in là c’erano altri treni, con le luci accese e le persone che ci salivano non erano in pigiama, ma avevano cappotti e cappelli, avevano anche delle valigie, qualcuno addirittura ne aveva due. Sembravano contenti di salire sul treno. Qualcuno rideva, altri si abbracciavano e fumavano con la testa fuori dai finestrini. Mi ricordo di una donna che stava ridendo a gran voce, forse l’uomo che le stava seduto di fronte le aveva appena raccontato una storia buffa. La donna rideva così forte che iniziarono a scenderle le lacrime dagli occhi. Poi a un certo punto voltò lo sguardo verso di noi, che stavamo ancora lì in piedi, e il suo sorriso divenne una specie di smorfia. Rimase lì ferma a fissarci per qualche istante come se si fosse incantata. La storia di quel signore doveva essere davvero molto buffa perché dagli occhi della signora scendevano ancora delle lacrime. Poi non la vidi più, perché finalmente arrivò il nostro treno. Non era come quello che aveva portato zia Santina da Torino. Non c’erano i finestrini e poi non c’erano le luci e nemmeno le sedie. Quando si aprirono le porte io fui preso in braccio da mia sorella e messo di peso dentro al vagone. Era freddo e puzzava. In pochi minuti eravamo tutti dentro, seduti per terra o uno sopra l’altro. Io ero sulle gambe di mia sorella. Si chiuse la porta di ferro e fummo completamente al buio. Tutte le donne urlavano e c’era anche qualche bambino, ma più piccolo di me, che piangeva piangeva e non smetteva più. Sentii un fischio fortissimo e subito dopo il treno si mosse in avanti con uno scatto improvviso che ci fece rotolare come biglie. Avevo freddo e avevo anche paura. Mi sforzavo di non pensare al mio vestito nuovo e alla coccarda. E se qualcuno me l’avesse rubata? Mi avrebbero messo in castigo per non essere andato a scuola, e perdipiù proprio il primo giorno? Però non era colpa mia, io ci sarei voluto andare…   Poi devo essermi addormentato tra le braccia di mia sorella. Mi addormentai nonostante il rumore, nonostante le donne vicino a me continuassero a disperarsi. Mi addormentai nonostante mia sorella continuasse a piangere...




…mi svegliai per i brividi di freddo che mi scuotevano e mi facevano tremare. C’era uno strano silenzio, il treno era fermo e dentro al vagone non si sentivano più pianti disperati, ma solo qualche lamento soffocato e batter di denti e ossa. Non era più tutto buio, c’era una luce debole, come quelle mattine in cui la nebbia è così fitta che non lascia passare i raggi del sole. E allora fa freddo, ma poi il sole vince, buca la nebbia e torna la luce e torna il caldo. In quella nebbia gelida nessuno parlava, nessuno si muoveva. Io tremavo come una foglia quando tira vento e non riuscivo a smettere. Provai a muovere una gamba, poi l’altra, ma non ci riuscivo perché erano finite tutte e due tra la gambe di mia sorella. Forse aveva cercato di riscaldarmi o forse era solo scivolata dopo essersi addormentata. Finalmente però non piangeva più. Da quando eravamo usciti da casa, per la prima volta non stava piangendo. Cercai i suoi occhi, gli unici che mi fossero familiari. Li trovai aperti e rossi. Sulle guance due piccoli sentieri bianchi che parevano zucchero e che dagli occhi scendevano fin agli angoli della bocca. Non tremava mia sorella, eppure aveva la pelle gelida e dura. Volevo piangere, ma non ci riuscivo…



… si aprirono le porte del vagone e un fascio di luce grigia entrò e mi colpì come uno schiaffo. I lamenti si fecero più numerosi, ma ancora deboli. C’erano uomini che gridavano, ma non erano gli stessi di prima. Urlavano parole in una lingua che avevo sentito qualche volta alla radio, ma di cui non capivo il significato. Questi uomini continuavano a gridare e c’erano anche dei cani. Gridavano anche i cani. E più gridavano i padroni, più abbaiavano i cani. Io ho sempre avuto paura dei cani, da quando quella volta ai giardini un grosso cane mi aveva rincorso abbaiandomi forte proprio come facevano questi cani vicino al treno. Per fortuna mio papà venne e mi prese in braccio: ridendo e prendendomi in giro, mi disse che era solo un cane, che voleva giocare, che non dovevo avere paura. Quanto avrei voluto che mio papà fosse ancora lì, che mi dicesse ancora di non avere paura. Uno di quegli uomini mi prese invece per un braccio e mi tirò con forza. Io cercai di aggrapparmi a mia sorella, ma non ci riuscii e mi ritrovai a terra. I cani abbaiavano sempre più forte. Una signora, non so chi fosse, mi prese in braccio e mi portò con sé. Io riuscii solo a bisbigliare mia sorella, poi allungando lo sguardo fino al vagone la vidi sdraiata, con le gambe vicine e le braccia aperte: sembrava un angelo. Fu l’ultima volta che la vidi…




…eravamo ancora in fila, un uomo con il cane si avvicinò alla signora gentile e mi strappò dalle sue braccia, mi mise a terra e mi diede una spinta per farmi camminare. Mi facevano male i piedi, perché erano freddi e non avevo le scarpe. Mi guardavo intorno per cercare mia mamma, mio papà  e i miei fratelli, ma non vidi altro che altre file di persone che camminavano tra urla e cani che abbaiavano. Arrivammo in una specie di piazza con tante casette di legno. Ogni fila avrà avuto almeno cento persone, forse di più. E c’erano donne, bambini e vecchi. Quando si arrivava in fondo alla fila c’era un soldato che ti chiedeva qualcosa in quella lingua strana: qualcuno capiva e rispondeva, ma altri dicevano chiedevano Dove siamo? Cosa ci facciamo qui? Dove sono i miei figli? Cosa abbiamo fatto?. Ma il soldato non rispondeva a nessuna di queste domande, anzi sembrava arrabbiarsi molto. Poi diceva una parola e la persona andava da una parte, oppure dall’altra. E così di ogni fila se ne formavano due. Io non capivo da che parte era meglio stare, quando arrivai davanti al soldato mi disse qualcosa che non capii. Io non risposi nulla e lui ridendo mi mandò da una parte, dove c’erano già altri bambini. La signora che mi aveva preso in braccio e che stava appena dietro di me, invece, andò dall’altra. Un altro soldato ci urlò qualcosa e il gruppo dove stavo io lo seguì. Io continuavo a guardarmi intorno. La paura mi aveva tolto il freddo di dosso.
Ci fermammo davanti a una di quelle casette di legno e mentre il soldato parlava la sua lingua, a me sembrò di riconoscere la mamma in un gruppo di persone che, in fila, camminavano verso un’altra casetta. Quella però non era di legno, somigliava più alla nostra casa: aveva delle finestre e i muri di mattoni. Tutte quelle persone non avevano più i vestiti addosso. Io la mia mamma senza vestiti non l’avevo mai vista nemmeno a casa. Anzi, quando si doveva cambiare andava nella sua camera e accostava la porta perché diceva che si vergognava. Ed ora era lì, davanti a tutti, senza vestiti. Una dopo l’altra tutte le persone della fila entrarono nella casa di mattoni. Il soldato aprì la porta della casetta di legno e ci fece segno di entrare. Non rividi più mia mamma, né i miei fratelli, né mio papà…

… oggi quando rivedo sventolare un tricolore non riesco a non pensare a quella coccarda, a quella gelida notte e al giorno che cambiò per sempre la mia vita. Sarebbe stato il mio primo giorno di scuola, fu l’ultimo giorno da bambino.


1 commento:

Anonimo ha detto...

Gelo, neve, freddo, morte. Sono queste le uniche parole che riesco a pensare e scrivere dopo aver letto quello che tu hai riportato. Un giorno come un altro, ma per ricordare, per ricordare un periodo della nostra storia che ha lasciato un segno profondissimo nelle nostre menti e anche nelle nostre carni (si perchè leggendo questo scrtito ho sentito dolore fisico.
Per chi volesse e chi non l'avesse ancora visto segnalo il film: il bambino dal pigiama a righe, sarebbe bello che la nostra tv di stato trasmettesse anche questi documenti oltre a stupidate cacofoniche.
Stefano